GROSSETO – Parlare di Maremma significa raccontare storie ricche di
tradizioni, usanze, miti e leggende. Tra tutte, merita un approfondimento
quella che narra la vita di Domenico Tiburzi, il più famoso
brigante di Maremma. La storia di Domenichino, così veniva chiamato per la sua
bassa statura, è una storia vera, avventurosa, e intrisa di leggende: a ogni
maremmano i nonni hanno raccontato almeno una novella che vedeva lui come
protagonista, e ogni volta che veniva e viene narrata, è impreziosita di particolari
romanzati che la rendono ancora più affascinante.
In Maremma i primi casi di brigantaggio
risalgono al XIII secolo, anche se la diffusione del fenomeno si concentra
nella seconda metà dell’800, prolungandosi sino agli inizi del ‘900. La morte
di Tiburzi prima e quella del suo fido compagno Luciano Fioravanti poi segnano
la fine del brigantaggio nel grossetano. Fenomeno assai
complesso, possiede specifiche peculiarità in base alla zona e al periodo
di diffusione. In Maremma, come in altre zone d’Italia, il brigantaggio ha
attecchito per tre motivi principali:
il favore della popolazione, che vedeva nei briganti gli eroi in grado di
rimediare ai torti subiti dal governo;
il favore dei proprietari terrieri, che pagando la “tassa sul
brigantaggio” si garantivano la protezione da parte dei banditi;
l’ambiente, caratterizzato da una macchia impenetrabile, dimostrandosi il
rifugio ideale per i fuorilegge.
Che sia stato principalmente il ‘malgoverno’ a favorire lo sviluppo del
brigantaggio, veniva confermato anche da Giuseppe Massari, deputato
del Regno d’Italia, che nella sua “Relazione sulle cause del brigantaggio”
(1863) definiva il fenomeno come “la protesta selvaggia e brutale della miseria
contro le antiche e secolari ingiustizie”. Non a caso, gli episodi più gravi di
violenza si verificarono ai danni di carabinieri, guardiani, fattori e altri
rappresentanti del potere padronale e dello Stato.
In questo contesto si inserisce la storia di Domenico Tiburzi. Nato a
Celere (Viterbo) nel 1836, iniziò a compiere le sue prime rapine da ragazzo.
All’età di 16 anni veniva incluso in un elenco di ricercati per furto, mentre a
19 anni veniva processato per lo stesso reato ma assolto subito dopo. A 27 anni
Domenichino era arrestato per aggressione e ferimento, per poi essere rimesso
in libertà per “desistenza della parte offesa”.
Nel 1867 Tiburzi compiva il suo primo omicidio, uccidendo Angelo
Bono, il guardiano del marchese Guglielmi, dopo che lo aveva multato di
venti lire, una cifra molto alta per quei tempi, per aver raccolto un fascio di
spighe nel campo del marchese. Dopo il misfatto, Tiburzi si dava alla latitanza
nella profonda macchia maremmana, ma nel 1869 veniva arrestato e
condannato. Tre anni dopo evadeva di carcere per rifugiarsi nella macchia
maremmana, dove si alleò ad altri briganti, diventando ben presto capo banda.
Sono numerosi i delitti di compiuti da Domenico Tiburzi. Nel
1883, con i suoi compagni uccise il biscaiolo che aveva condotto i Carabinieri
nel rifugio dei briganti, visto che su Tiburzi pendeva una taglia di 10mila
lire. Dopo un colpo di pistola, Domenichino lo finì sgozzandolo. Nel 1888
uccise Raffaele Pecorelli, colpevole di aver rubato un maiale al nipote Nicola.
Ma gli omicidi di cui si macchiò – numerosissimi – riguardarono soprattutto gregari
che non stavano alle regole, spie, o chi commetteva rapine in suo nome,
“infangando” la sua immagine.
Ma Tiburzi era visto come un Robin Hood dei nostri tempi dalla popolazione.
Il brigante, infatti, istituì la “tassa sul brigantaggio” che dovevano pagare
i ricchi possidenti terrieri (in caso di mancato pagamento, i loro campi
venivano dati alle fiamme). Il ricavato veniva donato ai poveri.
Nel 1893 Giovanni Giolitti ordinò alle autorità di
catturare tutti i briganti, ma Tiburzi riuscì a scappare insieme ad altri. In
Maremma, infatti, si creò un vero e proprio muro di omertà in protezione dei
briganti che indignò lo stesso Giolitti. Per questo, in poco tempo, furono
effettuati molti arresti che coinvolgevano nobili, contadini, pastori, tutti
accusati di favoreggiamento. La caccia al bandito, così, divenne sempre più
serrata e spietata. Per sconfiggere il brigantaggio a Grosseto arrivò un
nuovo capitano dei Carabinieri, Michele Giacheri, conosciuto per
aver ottenuto ottimi risultati contro il banditismo calabro. Per tre mesi il
capitano studiò tutti i fascicoli che aveva a disposizione, dopo di che iniziò
la ricerca dei banditi.
La notte del 23 ottobre 1896 Domenico Tiburzi bussava alla porta di una
casa in località Forane, a Capalbio, insieme al suo luogotenente Luciano
Fioravanti. Era una serata di pioggia e i due cercavano riparo e un pasto
caldo. Quella notte i carabinieri arrivarono all’abitazione e uccisero
Domenichino colpendolo con due colpi di fucile sulla gamba e alla nuca.
Fioravanti riuscì a fuggire. Morì successivamente, nel 1900, per mano
di un compagno traditore.
Tiburzi riposa nel cimitero di Capalbio, dove venne sepolto “mezzo dentro e
mezzo fuori”, risultato questo del compromesso raggiunto tra il prete del
paese, che non voleva che il bandito fosse seppellito in terra consacrata, e la
popolazione, che richiedeva degna sepoltura per il paladino dei diritti dei più
deboli. Quindi si scavò una fossa proprio nel punto in cui si apriva
l’originario cancello d’ingresso del cimitero, perpendicolare al cancello
stesso: gli arti inferiori di Domenichino, simbolo del
corpo, furono adagiati in terra consacrata, mentre la testa e il
torace, sede dell’anima, rimasero fuori.
GROSSETO
– Dopo il pezzo di ieri su Domenico Tiburzi, la
nostra lettrice Carla
Vannetti ci ha scritto per informarci che qualche tempo
fa, nel 1996, aveva intervistato un contadino di Marsiliana il cui padre aveva
conosciuto personalmente il brigante. Ringraziando Carla, pubblichiamo
integralmente la sua intervista.
La storia
comincia nel lontano 1891. Era il giorno di Pasqua. Il mì babbo aveva 15 anni.
E’ del ’76, sicché. Io sono del ’15. Quando sono nato io lui aveva 39 anni. Io
ero il sesto figlio. Quindi eravamo nel 1891. Era il giorno di Pasqua e i miei
si preparavano per andare a Messa. Il nostro podere era nella tenuta della
Marsigliana, oltre l’Albegna. C’era solo quel podere a quei tempi. La mia
famiglia era a mezzadria del Principe Corsini. Verso le dieci capitarono
Tiburzi e Fioravanti. Dissero che volevano mangiare. Che era una decina di
giorni che erano in corsa. Coi carabinieri alle calcagna. Fioravanti si fece
prestare il rasoio dal mi’ babbo e cominciò a farsi la barba. La mia nonna
intanto gli preparava qualcosa da mangiare. Non fece in tempo a radersi che
all’uscio c’erano i Carabinieri di Magliano in Toscana. Vicino al fienile
c’erano dei tavoloni appoggiati al muro. Tiburzi si nascose lì dietro. Davanti
ai tavoloni un mucchio di fieno. Invano i carabinieri, coi forchetti, pungevano
il fieno. Fioravanti intanto prese sulle spalle un ballino di legna sciolse due
muli e finse di portare le bestie all’abbeveratoio. Fioravanti, convinto di non
essere riconosciuto, si avvicinò ai carabinieri .Tra questi c’era però un
giovane che l’aveva visto una volta in quel di Marsiliana. Si avvicinò al
maresciallo e disse: “Maresciallo, quello è Fioravanti”. Il maresciallo ordinò
il fuoco e gli spararono. Dice che c’era una siepe di marruche lì vicino. Il
mandrione. Ci tenevano dentro le bestie selvatiche, Fioravanti volò quella
siepe senza sfiorarla per niente. Fioravanti era un tipo sveglio. Però gli
spararono e lo presero in una coscia. Andarono poi a cercare Tiburzi, convinti
che dove c’era uno c’era anche l’altro. Invece non lo trovarono. Così i
carabinieri se ne andarono.
I
carabinieri non fecero nessun verbale?
No. Ma
prima di andar via andarono al cancello del mandrione. Videro il sangue e
pensarono di cercare Fioravanti nel bosco. Ma il maresciallo non volle perché
ferito com’era, disse, avrebbe ammazzato tutti e loro non lo avrebbero preso.
Così se ne andarono.
Tiburzi allora uscì dal suo nascondiglio. Prese qualcosa da mangiare, un po’ di
medicine e andò da Fioravanti. Il giorno dopo tornò al podere, lui solo, però.
Mio padre verso mezzogiorno dava il cambio ai bovi. Sai che a quel tempo
bisognava dare il cambio ai bovi e mio padre era addetto a questo lavoro.
Portava i bovi al lavoro e portava indietro quelli stanchi.
Vostro
padre non lavorava con l’aratro?
No, lui
era addetto alla stalla. Aveva solo 15 anni. Alle 10 il mi nonno andava a
portare il pranzo a Tiburzi e Fioravanti. Ci andava due volte al giorno.
Ma dove
stavano i due briganti?
Stavano
nella macchia. C’era un cocuzzoletto.
Ma era
vicino al vostro podere?
Si, era
vicino. La macchia faceva parte del nostro podere. Alle 5 andava a portargli la
cena. Tutti i giorni quel lavoro lì. Mio padre raccontava che ci stettero più
di un mese e mezzo. Poi andarono via. Pagarono . E il mi’ babbo…
Ma il
vostro babbo vi disse quanto avevano pagato?
No. La
mi’ nonna sapeva cosa avevano mangiato. Loro pagarono la mi’ nonna. Io non so
quanto. Al mi’ babbo gli dettero 10 lire. Pensa che il mi’ babbo era astemio,
non gli piaceva il vino. Ma dopo di loro cominciò a bere. Loro glielo davano e
qualche volta si ubriacava anche.
Scusate
una parentesi. Ma vostro padre era piccino a quei tempi. Loro trattavano con
vostro nonno. Come si chiamava vostro nonno?
Angelo si
chiamava. Come me. Vedi, quello lì con la barba. Così i briganti andarono via.
Ma ogni tanto ritornavano. Al mi’ babbo nel mese di ottobre gli venne il tifo.
Lo portarono all’ospedale dove fu curato alla meglio e poi fu riportato a casa.
Ma il ragazzo, che si trattava di un ragazzone, alto circa un metro e
ottantasette, aveva sempre fame e cominciò a mangiare quello che gli capitava.
Così gli rivenne il tifo un’altra volta. Lo riportarono all’ospedale. E questa
volta ci stette un paio di mesi. Poi il professore disse di riportarlo a casa
che non c’era più niente da fare. Le febbre non passava. Mangiare, poteva solo
mangiare un pochino di brodo sgrassato.
Ma era
tifo o qualch’altra cosa?
Io penso
che era debolezza. Dopo un po’ di giorni che era a casa, ripassarono di lì
Tiburzi e Fioravanti. “Dov’è il nostro Fello?” – così veniva chiamato mio padre
– chiesero.
“Fello ormai è andato” disse mio nonno. E mia nonna si mise a piangere.
“Come? – disse Tiburzi -. Fello è morto e voi non ci avete fatto sapere nulla?”
“Non è morto ma è come se lo fosse” rispose mio nonno.
Parlavano piano per non farsi sentire, ma mio padre ce la fece a levarsi dal
letto e si affacciò nella stanza dove loro parlavano. Fioravanti fece appena in
tempo a sorreggerlo che lui svenne. Lo riportarono a letto .
“Perché ti sei alzato?” disse Tiburzi.
“Pensavo che andaste via senza salutarmi” rispose babbo.
“E’ vero che siamo dei banditi – proseguì il brigante -, ma come potevamo andar
via senza salutarti. Sta’ tranquillo. Ti manderò in un posto dove ti
guariranno”.
Ma il
vostro babbo che gli aveva fatto a Tiburzi?
Gli aveva
portato da mangiare per un mese e mezzo. Tiburzi chiese allora al mi’ nonno se
era ancora in amicizia col ministro del principe Corsini. Avutane risposta
affermativa, gli disse di mandare uno dei suoi figli maggiori a dire al
ministro che mandasse, il giorno dopo all’alba, la carrozza coperta e una
pariglia alla Mariannaccia.
“Portalo subito a Pitigliano” gli disse, e gli dette un pettinino da uomo
diviso a metà e uno specchietto rotondo, anche quello diviso a metà.
“Quando arrivi vai dallo speziale e fagli vedere queste cose. Vedrai che lui ti
aiuterà”.
“Ché sta male Tiburzi?” chiese preoccupato lo speziale quando il mi’ nonno gli
mostrò gli oggetti.
“Si tratta di mio figlio” spiegò il mi’ nonno.
Subito lo speziale chiamò un ragazzotto e fece portare in casa il mi’ babbo.
Mandò poi a chiamare il professore, un uomo alto con un gran cappellone nero.
Dovrebbe essere stato un ricercato o un confinato. Di giorno non si faceva mai
vedere. Venne proprio perché lo mandò a chiamare se no lui di giorno non si
faceva mai vedere. Era forestiero. Visitò il mi’ babbo e gli diede subito da
mangiare. Tagliatelle. Un po’ di carne. Un morsettino di pane e un po’ di vino.
Poretto. Nelle condizioni in cui era, pelle ed ossa, dopo mangiato quella poca
roba svenne. La mi’ nonna si spaventò ma il professore si mise a ridere. “Stia
tranquilla signora – disse -. Suo figlio al 99 per cento è sano perché ha
reagito”. Dopo 12 giorni mio nonno andò a riprenderlo con la solita carrozza,
si era rimesso in forze. Ed è vissuto fino ad 89 anni, è morto nel ’63.
Quei
ritratti lassù sono i vostri nonni?
Si. Lui
si chiamava Angelo e lei Rosa.
Quando è
morto Angelo?
E’ morto
nel ’28. Il giorno non me lo ricordo. E la mi nonna nel febbraio del ’37.
Allora il mi’ nonno portò molta roba a quello speziale, soldi e generi
alimentari , per quei 12 giorni, ma lui non volle niente.
“Io e Tiburzi siamo come due fratelli – disse lo speziale -. Lui aiuta me ed io
aiuto lui. Se Domenico sapesse che vi ho preso qualcosa per quello che ho
fatto, diverrebbe il mio peggior nemico”.
Ogni tanto, specialmente la domenica, Tiburzi e Fioravanti ritornavano al
podere di mio nonno.
Voi però
mi avete detto che sapete la vera storia della morte di Tiburzi. Quello che mi
avete raccontato finora è l’antefatto. Vediamo ora di entrare nel vivo della
storia.
Oggi è il
25 di ottobre del ’96. Guardate la coincidenza. Tiburzi fu ammazzato la notte
tra il 25 e il 26 ottobre del 1896.
No, no la
notte tra il 23 e il 24.
Macché
tra il 25 e il 26. Sicché stanotte sarebbero cent’anni esatti. Era la mattina
del 25 di ottobre. Il mio babbo e due dei miei zii stavano per uscire di casa
per andare a passare una mezza giornata a Marsiliana, alla dispensa. C’erano là
Tiburzi e Fioravanti che però scapparono subito perché videro i carabinieri che
venivano di lassù dal castello verso la dispensa col sottogola. Perché quello
era il segnale che quando i carabinieri non avevano il sottogola non li
toccavano. Quando avevano invece il sottogola significava che avevano avuto
l’ordine di affrontarli. Allora scapparono. Dopo un po’ venne il guardiano –
non mi ricordo il nome – e disse a mio padre che Domenico lo voleva. Era giù
sotto Marsiliana. Lui andò giù e Tiburzi gli disse che la sera avrebbero fatto
una festa, un ritrovo giù alle Forane. Lui e i suoi fratelli erano invitati.
“Si fa una bella stortellata – disse – e poi una fisarmonichetta e si balla”.
Allora,
ricapitolando: loro erano passati in giornata dal vostro podere.
No loro
si erano trovati alla dispensa di Marsiliana.
Ma i
briganti giravano così indisturbati alla dispensa?
Certo,
poi però videro i carabinieri. Il mì babbo disse che non poteva accettare
l’invito perché si sarebbe dovuto allontanare troppo da casa. “Se non ci vieni
ci resto troppo di male – disse Tiburzi – devi venire”. Così il mì babbo, che
allora aveva vent’anni, fu costretto ad accettare. Tiburzi gli aveva salvato la
vita e lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per non contrariarlo.
Ma il
vostro babbo che diceva, che era un onore per lui andare con Tiburzi o no?.
No. Lui
ci andava per riconoscenza. Si sentiva obbligato. Insomma il mi’ babbo non ci
voleva andare ma alla fine accettò. “Venite col guardiano – disse Tiburzi- e
poi quando annotta prendete i cavalli e tornate a casa”. Alle Forane c’erano
tortelli dappertutto e vino e carne. Fecero una bella mangiata. Poi ballarono .
Tiburzi bevve. Seduto in un canto presso il foco ogni poco chiamava perché
portassero altro vino. Il vino poi finì e Tiburzi, che quando aveva bevuto
diventava cattivo, se la prese con il padrone, il contadino diciamo così, forse
perché con i soldi che gli aveva dato doveva comprarne di più. Tiburzi si
arrabbiò e disse di correre a comprarne ancora. L’oste però era già a letto. I
due ragazzi cominciarono a chiamarlo e quel chiasso richiamò il maresciallo.
“Che succede?” disse. E l’oste spiegò che doveva mandare il vino alle Forane
che c’era una festa. Il maresciallo chiamò i carabinieri e andò con loro alle
Forane. Circondò il podere.
Erano lì
di stanza a Capalbio, non erano di fuori?
No erano
di lì. A 50 metri dal podere c’era uno ziro mezzo rotto. Il maresciallo o
brigadiere gli mise intorno la mantellina e sopra il cappello. Ci attaccò una
lanterna accesa. Poi rivolgendosi ai carabinieri disse: “State attenti. Appena
Tiburzi si accorge di noi, sorte fuori e spara. Voi state attenti da dove viene
la vampata”. Infatti lui uscì fuori e sparò.
Ma perché
lui si affacciò?
Perché
sentì i cani che abbaiavano, e quando vide la lanterna che illuminava il
berretto del maresciallo sparò. Subito anche i carabinieri fecero fuoco e gli
troncarono una gamba. Dice che quando Tiburzi sentì gli spari, spense il lume e
li fece buttà tutti a terra e poi lui sortì e sparò alla lanterna. Fioravanti
lo voleva prendere a spalla ma lui gli disse: “No. Vai via. Tu sei giovane. Io ho
vissuto anche troppo alla macchia”.
Ma
intanto i carabinieri non continuavano a sparare?
No. Il
Maresciallo gridò: “Domenico, sei circondato. Arrenditi. Siamo in tanti.
Finirai a marcire in galera”. Tiburzi, trascinandosi in terra, rientrò in casa
e andò a sedersi sulla seggiola dove era prima e da lì parlò al maresciallo.
“Mi prenderete si, ma morto. Non finirò a marcire in galera – rispose il
brigante – Questa gente che è qui con me non c’entra niente. Non volevano far
festa a me. Son venuti per paura. Non gli fate niente”.
Ma i
carabinieri non entravano per prenderlo?
Il
brigadiere aveva paura ad entrare. Per questo stava fuori della porta a
chiacchierare con Tiburzi.
“Sta tranquillo – disse il maresciallo – possono andare via tutti. Non gli
faremo niente. Basta che tu ti arrenda”.
“Glielo ho promesso – disse Tiburzi -. Mi arrendo. Ma mi piglierete morto”. E
così dicendo si mise la pistola alla gola e sparò.
E il
vostro babbo era presente a tutte queste cose?
Si era
presente. Dopo scapparono via saltando dalla finestra della camera dietro.
Presero il cavallo e tornarono a casa. Insieme al guardiano della Marsiliana.
Dall’autopsia che fecero a Tiburzi risultò che il foro era dietro alla nuca e
non nel sottogola, però. Forse la pallottola era uscita dall’altra parte. Aveva
bucato anche il cappello. Il principe Corsini non veniva alle cacciate a
Marsiliana se Tiburzi e Fioraventi non erano nella tenuta.
Servivano
allora come guardie del corpo?
Pari
pari. Perché a quei tempi c’erano tanti marioli, e quando c’erano loro era
tutto tranquillo. Quel giorno il mi’ babbo e i suoi fratelli erano andati a
Marsiliana perché piovigginava e non potevano fare il lavoro nei campi.
Insomma
quei briganti giravano indisturbati per la zona. Vivevano col popolo. Erano
tranquilli insomma, tanto nessuno gli faceva niente.
Certo,
pagavano apposta per stare tranquilli.
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